sabato 22 gennaio 2011

Banda della Magliana dalla A alla Z

Fonte: ilcassetto.it

03/10/2006
di Antonello Sacchetti
Nomi, crimini e misfatti della holding criminale più famosa d'Italia







ANTEFATTO
Fino ai primi anni Settanta la malavita romana era ancora strutturata in piccoli gruppi, ognuno padrone del proprio territorio. Vivevano di furti, gioco d’azzardo, sfruttamento della prostituzione e contrabbando di sigarette. Le grandi rapine avvenivano quasi esclusivamente nel Nord Italia, ad opera di bande preparate dal punto di vista militare. Nella Capitale durava ancora una sorta di “età dell’innocenza”. È la mala descritta in film come “I soliti ignoti”, o raccontata nei primi romanzi di Pasolini. Tutto cambia all’inizio degli anni Settanta. A Roma arriva l’eroina, fino ad allora diffusa soprattutto nel milanese. I piccoli boss romani fiutano l’affare.

BANDE
Non è esatto parlare di “Banda della Magliana”. In realtà, a Roma si tratta di un’alleanza tra bande (chiamate in gergo “paranze” o “batterie”) di vari quartieri: Trastevere, Testaccio, Ostiense e, appunto, Magliana. Fino ad allora i padroni del crimine erano stati i marsigliesi. Gli arresti dei boss Maffeo Bellicini, Albert Bergamelli e Jacques Berenguer creano un vuoto di potere inaspettato.
Il primo a intuire l’occasione è Franco Giuseppucci (detto il “negro”, Libanese, nel libro di De Cataldo e nel film di Placido), piccolo boss che si muove tra Testaccio e Trastevere. L’idea è semplice: dividere Roma in zone d’influenza, organizzare lo spaccio di eroina in modo “scientifico”, senza più sottostare a padroni, siano essi marsigliesi, napoletani o siciliani. Il progetto di Giuseppucci conquista altri capetti come Enrico De Pedis detto Renatino (Dandi), Raffaele Pernasetti, Ettore Maragnoli e Danilo Abbruciati. Poco dopo arrivano “quelli della Magliana”: Maurizio Abbatino (il Freddo), Marcello Colatigli ed Enrico Mastropietro. Per entrare nel mercato dell’eroina servono però parecchi soldi. Bisogna comprare una grossa partita da gestire in proprio. Come fare?

CADAVERI
Il 7 novembre 1977 il duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere viene sequestrato da un gruppo di uomini armati. È il primo atto della nuova banda. L’ostaggio viene ucciso dopo quattro mesi nonostante la famiglia abbia già pagato due miliardi e mezzo di lire. Seguono poi i sequestri del re del caffè Giovanni Palombini e dell'industriale del marmo Valerio Ciocchetti. Entrambi ammazzati senza pietà, malgrado i parenti avessero pagato il riscatto. Particolarmente crudele la storia di Palombini: i killer lo tengono in frigorifero per settimane per fotografarlo e convincere i familiari a proseguire la trattativa. Sono le prime vittime di una storia feroce.

DE PEDIS, ENRICO
Detto “Renatino”. Viene ucciso a colpi di revolver il 2 febbraio 1990, nei pressi di Campo de’ Fiori, in pieno centro storico. De Pedis è sepolto in una cripta della basilica di Sant'Apollinare, ufficialmente perché “benefattore”. In molti sospettano che dietro il trattamento di favore riservato al killer, ci siano gli strani legami intercorsi tra il Vaticano, il Banco Ambrosiano e la Banda della Magliana. Qualcuno sostiene inoltre che la strana sepoltura di De Pedis sia legata al mistero di Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana quindicenne scomparsa nel 1983. La basilica in cui è sepolto il bandito fa parte dello stesso edificio in cui aveva sede la scuola di musica dove Emanuela viene vista per l'ultima volta.

EQUILIBRI
La Banda della Magliana ha legami con la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. I testaccini sono invece in contatto con il boss mafioso Pippo Calò. Alla “confederazione del crimine”, si aggiunge il gruppo di Acilia-Ostia, capeggiato da Edoardo Toscano. Nicolino Selis, uomo di Cutolo, si trasferisce a Roma proprio in virtù dell’alleanza con i nuovi boss romani. I nuovi equilibri sono garantiti da una sorta di “divisione democratica” degli utili, in cui vengono coinvolti anche i boss in carcere. A loro è destinata una “stecca” (cioè una quota) speciale.

FASCISTI
Nei primi mesi del 1978 la Banda della Magliana stabilisce una sorta di joint venture con l’eversione politica, in particolare con i gruppi neofascisti della Capitale. A Roma sono attivi in quel periodo i Nar (Nuclei armati rivoluzionari) di Giusva Fioravanti, Alessandro Alibrandi e Massimo Carminati. Terroristi di destra partecipano a rapine e omicidi. In cambio la Banda fornisce armi e documenti falsi. Verrà scoperto un arsenale gestito da Nar e Banda della Magliana negli scantinati del Ministero della Sanità. Non è un’alleanza dettata da affinità ideologiche: ci saranno contatti anche con le Brigate Rosse. Forse non è un caso che il covo di via Montalcini, presunta prigione di Aldo Moro, sia proprio in zona Magliana.

HOLDING
Dall’eroina, la Banda della Magliana passa ad altri affari, divenendo una vera e propria holding del crimine. Grazie alla mediazione dello spregiudicato faccendiere Flavio Carboni, la banda entra nel mondo della speculazione edilizia. Attraverso una rete di società finanziarie fittizie (come la Sofint), vengono acquistati immobili sulla Costa Smeralda. È il modo migliore per riciclare denaro sporco. Non solo: i boss vengono contattati da elementi deviati dei servizi segreti. In cambio di copertura, alla banda vengono commissionati diversi lavori “sporchi”. (Vedi sotto, Toni Chicchiarelli). Secondo la Commissione stragi, negli anni Settanta la Banda della Magliana ha trasformato Roma in un ''crocevia eversivo, una zona grigia non ancora conoscibile nei dettagli e con indagini ancora in corso, come quella sull'omicidio di Roberto Calvi''.

IOR
Negli anni Settanta lo Ior, la banca del Vaticano, è guidata dall’ambiguo monsignor Marcinkus. Allo spaventoso crac dello Ior (1.300 miliardi di buco) è associata la misteriosa morte di Roberto Calvi, il presidente del Banco Ambrosiano trovato impiccato il 17 giugno del 1982 sotto il ponte dei Frati neri a Londra. Si sospetta che l’assassino di Calvi sia stato commissionato a elementi della Banda della Magliana. Uno dei tanti lavori in appalto.

LOGGIA P2
La loggia massonica segreta di Licio Gelli è il tramite della Banda per fare affari in Sudamerica e in Africa. Il venerabile ha infatti ottime entrature presso i regimi dittatoriali latinoamericani (Argentina, in particolare). La Banda investe soprattutto in opere edili.

MAGLIANA
Il quartiere della Magliana è situato nella periferia sud occidentale di Roma, a ridosso di un’ansa del Tevere. Proprio sulle rive del fiume sorge la chiesa di Santa Passera, costruita intorno al IX secolo sulla struttura di un antico tempio romano. Nella seconda metà degli anni Sessanta, la Magliana è teatro di una speculazione edilizia terribile. Vengono costruiti palazzoni a schiera in un’area situata sotto il livello del Tevere. Ne viene fuori un quartiere caotico, con pochissimo verde e a rischio inondazioni.

NICOLETTI, ENRICO
Uno dei personaggi meno noti e più inquietanti della saga della Banda della Magliana. Costruttore, amico di Giuseppe Ciarrapico e politicamente vicino a Giulio Andreotti, Nicoletti svolge un’intensa attività di prestiti e depositi che serve a riciclare denaro sporco. Nel mandato di cattura a suo carico, il giudice Lupacchini scrive: ''Nicoletti funziona come una banca, nel senso che svolge un’attività di depositi e prestiti e attraverso una serie di operazioni di oculato reinvestimento moltiplica i capitali investiti dell’organizzazione''. Con l’operazione “Colosseo” la polizia sequestra ai boss della Magliana ottanta miliardi di beni mobili e immobili.

OMICIDIO MORO
Un mistero tira l’altro. È ormai accertato che la Banda della Magliana abbia avuto un ruolo anche nel sequestro Moro. Facciamo un passo in avanti. Il 25 marzo 1984 alla Brink’s Securmark, un deposito che faceva capo a una catena bancaria di Michele Sindona, vengono rubati valori per 35 miliardi. Il colpo del secolo, dirà qualcuno. Cosa c’entra il caso Moro? Il fatto è che la rapina è molto strana. Sul pavimento della banca, i rapinatori lasciano una serie di oggetti-simbolo: una granata Energa, sette proiettili calibro 7,62, sette piccole catene e sette chiavi. La bomba Energa è dello stesso tipo usata durante l’agguato al colonnello Varisco. Le sette chiavi e le sette catene sono lette come un riferimento al falso comunicato n. 7 delle Br sul lago della Duchessa, mentre i sette proiettili calibro 7,62 riportano all’omicidio di Mino Pecorelli. (Leggi sotto Toni Chichiarelli).

JACKIE O'
Il locale più in della Roma bene di quegli anni è anche la centrale operativa della Banda della Magliana. Un luogo in cui boss brindano a champagne e programmano delitti di ogni tipo.

PECORELLI, MINO
Il direttore della rivista OP viene ucciso la sera del 20 marzo 1979. Sta per fare rivelazioni sul Caso Moro. Chiunque lo abbia ucciso (è l’ennesimo delitto senza colpevoli), ha avuto a che fare con la Banda della Magliana: i quattro colpi che lo feriscono a morte sono esplosi da una pistola proveniente dal deposito d'armi del Ministero della Sanità in via Liszt 34. La santabarbara della Banda.

ROSONE, ROBERTO
Il 27 aprile 1982 il vicepresidente del Banco Ambrosiano Roberto Rosone subisce un attentato a Milano. Un killer in moto si accosta e spara. Una guardia giurata risponde al fuoco e uccide l’attentatore. È Danilo Abbruciati, boss della Banda della Magliana. Il mancato omicidio di Rosone apre gli occhi a inquirenti e politici. Il fatto che Abbruciati sia andato in “trasferta” a uccidere Rosone, è la prova del salto di qualità della Banda della Magliana.

SOPRANNOMI
Tutti i boss avevano un soprannome: er Negro, er Zanzara, er Secco, er Rospo, er Banana. E’ l’unico aspetto ancora casareccio di una malavita che ha cambiato pelle.

TONI CHICCHIARELLI
Toni Chicchiarelli è il falsario della Banda della Magliana, specializzato nei falsi De Chirico. È lui a scrivere – durante il sequestro Moro – il falso comunicato n. 7, quello che il 18 aprile 1978 annuncia che il cadavere di Moro si trova nel Lago della Duchessa. Oggi è accertato che quel comunicato fu commissionato dai servizi segreti per smuovere le acque in una fase di stallo del sequestro. Chicchiarelli viene ucciso il 26 settembre 1984. Nel corso della perquisizione della sua abitazione, la polizia trova un filmato della rapina al deposito della Brink’s e altri materiali provenienti dalle Br. Si parla addirittura di due polaroid di Moro nella “prigione del popolo”. Il suo commercialista Osvaldo Lai sosterrà che la rapina alla Brink’s Securmark gli era stata commissionata da “un membro della P2 legato a Sindona''. L’avvocato Pino De Gori, legato all’uomo politico Dc Flaminio Piccoli dichiarerà: ''E’ stato il Mossad (il servizio segreto israeliano) ad autorizzare la rapina. Era una ricompensa per il comunicato falso del Lago della Duchessa, poi però l’hanno fatto fuori''. Ad oggi non si sa chi abbia ucciso Chicchiarelli.

ULTIMO ATTO
Quando finisce la Banda della Magliana? Il primo boss a cadere è Franco Giuseppucci, assassinato il 13 settembre 1980 in piazza San Cosimato, a Trastevere. L’omicidio viene subito attribuito al clan rivale dei Proietti, a sua volta decimato nei mesi successivi. Ma c’è chi sostiene che Giuseppucci sia stato ucciso perché aveva fatto da tramite tra Br e politici che volevano liberare Moro. Troppi segreti, troppo pesanti. Abbruciati muore nel 1982, De Pedis nel 1990. Nel 1984 il boss mafioso Tommaso Buscetta comincia a collaborare con Giovanni Falcone e anche i boss legati alla Banda della Magliana cominciano a tremare. Pippo Calò, per sfuggire all’arresto, prova a ricattare lo Stato, pretendendo la copertura avuta per anni. Il 23 dicembre 1984 una bomba esplode sul treno Napoli - Torino provocando quindici morti e ottanta feriti. Tre mesi dopo Calò viene arrestato. Senza il “cassiere della mafia”, la Banda della Magliana perde un punto di riferimento essenziale.

VITALONE, CLAUDIO
Nel processo Andreotti la pentita Fabiola Moretti, accusa l’ex senatore Dc Claudio Vitalone di aver commissionato a De Pedis l’omicidio Pecorelli. Un “favore ad Andreotti” per garantire il silenzio su aspetti compromettenti del Caso Moro. Per ricompensa, Vitalone avrebbe organizzato la fuga del boss Edoardo Toscano dall’aula Occorsio di piazzale Clodio durante un processo nel 1986. Ma a fuggire è Vittorio Cornovale, personaggio di secondo piano. Toscano esce di galera due anni dopo e viene subito ammazzato. Ad ogni modo, Vitalone è stato assolto perché l’accusa non è riuscita a dimostrare la sua colpevolezza.

ZITTI TUTTI
Oggi la storia della Banda della Magliana sembra chiusa per sempre. Nel rapporto che il sostituito procuratore Franco Ionta ha inviato alla Commissione Antimafia nel marzo 1990 si legge: “La malavita romana può definirsi mafia dei colletti bianchi per il suo ruolo di riciclaggio di ingenti somme di denaro in immobili, pellicce e gioiellerie, ristoranti e locali notturni gestiti attraverso un reticolo di società a responsabilità limitata. Da calcoli effettuati dagli inquirenti sembrerebbe che il giro di affari ammontasse ad oltre 600 miliardi”.

Fonte: ilcassetto.it

venerdì 21 gennaio 2011

La dittatura tunisina grazie all'Italia

Fonte: repubblica.it

L'ex capo del Sismi: "L'Algeria stava per invadere
il paese vicino per difendere il gasdotto"


Tunisia, il golpe italiano
"Sì, scegliemmo Ben Alì"

di VINCENZO NIGRO
ROMA - "Non fu un brutale colpo di stato: fu un'operazione di politica estera, messa in piedi con intelligenza, prudenza ma anche decisione dagli uomini che guidavano l'Italia in quegli anni. Sì, è vero, l'Italia sostituì Bourghiba con Ben Ali". Sono le dieci del mattino: per riscaldarsi ai tavolini del bar di viale Parioli l'uomo del ministero degli Esteri cerca uno spazio al sole fra l'ombra dei platani. "Fu l'Italia a costruire nel giro di un paio di anni la successione indolore fra Bourghiba e Ben Ali. Furono Craxi, Andreotti, il capo del Sismi Martini, il capo dell'Eni Reviglio a garantire una rete di sicurezza al "golpe costituzionale" che Ben Alì mise a segno la notte fra il 6 e il 7 novembre dell'87. La storia è lunga, molto più complicata e molto meno sordida di quanto sembri. Craxi fece una visita in Algeria in cui quelli si dissero pronti a invadere la Tunisia se Bourghiba non avesse garantito la stabilità del suo stesso paese. Gli algerini volevano fare qualcosa per tutelare il gasdotto Algeria-Italia, che nel tratto finale attraversa la Tunisia. L'Italia non poteva tollerare una guerra fra Algeria e Tunisia, ma non poteva neppure permettere che Bourghiba degradasse al punto da rendere insicura la Tunisia. Ma chi sa davvero tutto è l'ammiraglio Martini...".

Le undici di ieri mattina. Nel salotto del suo piccolo appartamento alla Balduina, l'ammiraglio Martini si accomoda in poltrona con agilità insospettabile per i suoi 75 anni. Tutt'intorno i cimeli, i ricordi delle due vite trascorse al servizio della Repubblica, quella da ufficiale di Marina e quella da uomo dei servizi segreti. "La storia è vecchia, ma non capisco proprio perché ci siate saltati su solo adesso: l' avevo fatto capire chiaramente nel mio libro "Ulisse"...".

Ammiraglio, semplicemente perché l'altra sera in Commissione Stragi lei ha pronunciato la parolina magica "golpe", anche se l'ha declinata all'italiana: "Organizzammo una specie di colpo di stato in Tunisia". Cos'è una specie di colpo di stato?
"Allora: all'inizio del 1985 mi chiama Bettino Craxi, presidente del Consiglio. Poco prima era stato in Algeria, dove aveva incontrato il presidente Chadli Benjedid e il primo ministro pro tempore, non ricordo chi fosse..." (il primo ministro pro tempore di Chadli era Abdel Hamid Brahimi, ndr).

"Craxi mi dice: ammiraglio, lei deve andare in Algeria, deve incontrare il capo dei loro servizi. Io gli rispondo: presidente, io in Algeria non ci vado. I servizi segreti algerini sono tra i più attivi nell'organizzare e armare i terroristi palestinesi. Il Sismi in quegli anni non aveva contatti con l'Algeria, con i libici, con la Siria. Non avevamo contatti con i servizi che appoggiavano la galassia delle organizzazioni terroristiche palestinesi. Craxi mi ordinò: lei deve andare in Algeria, si cauteli ma vada lì".

La visita di Craxi era stata la prima di un premier italiano nell'Algeria che dal 1962 aveva conquistato l'indipendenza dalla Francia. Presentando il viaggio, il 26 novembre del 1984 il corrispondente dell'Ansa da Algeri scrive: "La visita di Craxi cade in un momento particolare per l'Algeria, che è impegnata a diversificare le sue preferenze verso altri paesi dell'Europa occidentale dopo i problemi con Francia e Spagna. La diffidenza di Algeri verso Parigi è scaturita anche dalle intese raggiunte recentemente fra Mitterrand, il re del Marocco Hassan II e il leader libico Gheddafi per il Ciad. Inoltre l'Algeria si è trovata circondata da un blocco militare ostile a seguito dell'Unione fra Libia e Marocco senza un'aperta opposizione della Francia".

Craxi giunge ad Algeri il 28 novembre 1984. L'ammiraglio Martini ricorda: "Il presidente algerino prospettò al presidente Craxi un'eventualità che per noi sarebbe stata assai pericolosa. Gli algerini - disse - erano pronti a invadere quella parte del territorio tunisino che è attraversata dal gasdotto. Craxi disse a Chadli: "Aspettate, non vi muovete", e iniziò a muoversi lui con Giulio Andreotti".

Alla fine lei decide il viaggio ad Algeri. "Naturalmente io eseguo le direttive del governo: non avevamo rapporti diretti col servizio algerino, un servizio unico controllato dai militari. Perciò chiamai l'ambasciata a Roma e dopo pochi giorni col mio aereo atterrai ad Algeri. Mi fecero parcheggiare a fondo pista, lontano da tutti e da tutto. Rimasi a parlare fino a notte fonda con il capo dei loro servizi, e da allora avviammo un dialogo che aveva un grande obiettivo: evitare che la destabilizzazione crescente della Tunisia portasse gli algerini a un colpo di testa. L'Italia offriva aiuto all'Algeria, e in cambio chiedeva aiuto all'Algeria nel controllo del terrorismo in Italia".

Aiuto italiano nella "stabilizzazione" della Tunisia?
"Sì. Da quel momento iniziò una lunga operazione di politica estera in cui i servizi ebbero un ruolo importantissmo. Alla fine individuammo il generale Ben Ali come l'uomo capace di garantire meglio di Bourghiba la stabilità in Tunisia. Da capo dei servizi segreti, poi da ministro dell'Interno Ben Alì si era opposto alla giustizia sommaria che Bourghiba aveva intenzione di fare dei primi fondamentalisti che si infiltravano nei paesi islamici. Dopo la condanna a morte di 7 fondamentalisti, Bourghiba voleva altre teste. Noi proponemmo la soluzione ai servizi algerini, che passarono la cosa anche ai libici. Io personalmente andai a parlare con i francesi...".

Ebbe qualche problema col suo collega francese, il capo della Dgse?
"Era il generale René Imbot, ex capo di stato maggiore dell' Armée. Andai da lui, gli spiegai la situazione, gli dissi che l'Italia voleva risolvere le cose nella maniera più cauta possibile, ma che comunque non voleva aspettare che la Tunisia saltasse per aria. Lui fece un errore imperdonabile: mi trattò con arroganza, mi disse che noi italiani non dovevamo neppure avvicinarci alla Tunisia, che quello era impero francese. Io ancora oggi penso che per difendere un impero bisognava avere i mezzi, la capacità ma anche la solidarietà di chi non è proprio l'ultimo carrettiere del Mediterraneo... Imbot era stato nella Legione straniera per vent'anni, aveva guidato i paracadutisti che parteciparono alla repressione nella casbah durante la battaglia di Algeri. Era un soldato, non capiva la politica, ebbe qualche problema con il suo primo ministro Jacques Chirac".

Voi andaste avanti col vostro piano: sempre con il consenso di Craxi e Andreotti? E gli americani, li avvertiste?
"Gli americani non furono coinvolti. Naturalmente io mi muovevo seguendo le direttive del governo, tenendolo informato passo dopo passo. Noi del Sismi non facemmo nulla di operativo in Tunisia, ma collaborammo a un'azione politica italiana che, appena Ben Ali arrivò al potere, riuscì a sostenere il suo governo politicamente ed economicamente ed aiutò la Tunisia ad evitare l'incubo islamico che ha tormentato paesi come l'Algeria".

La notte del 6 novembre 1987 in Italia il presidente del Consiglio era Giovanni Goria, il ministro degli Esteri Giulio Andreotti, il leader del Psi Bettino Craxi. Sette medici firmarono un referto che certificò l'incapacità di Habib Bourghiba, il primo ministro-generale Zin el Abidin Ben Ali divenne presidente della Tunisia.

Martini ieri sera non ha voluto commentare le dichiarazioni di Pellegrino, Craxi e Andreotti su questo che ha definito "una specie di golpe". I giornalisti che da Tunisi il 7 novembre 1987 trasmisero i loro articoli lo chiamarono "golpe costituzionale". Chiamatelo come volete, la storia è questa.

(11 ottobre 1999)

Fonte: repubblica.it